Sulla didattica a distanza: est modus in rebus

Le cose vanno per le lunghe e tutte le scuole si stanno organizzando, come è giusto che sia. Però in qualche caso siamo alla follia, come segnala a chiare lettere questo interessante articolo:

Mi sembra ovvio che la scuola deve essere presente accanto alle famiglie e soprattutto agli studenti di qualsiasi fascia d'età (soprattutto i più piccoli, è ovvio), ma non deve essere una presenza da incubo. Non possiamo pretendere che i ragazzi svolgano lo stesso "programma" che svolgiamo in condizioni "normali". Semplicemente perché NON stiamo vivendo una condizione di "normalità", ma di emergenza! Dovremmo pensare, in primis, a tranquillizzare i ragazzi, a far sapere loro che ci siamo. Che tutto andrà bene, se ci comporteremo come ci viene indicato. Se portiamo pazienza. Se ci crediamo.
A mio modesto avviso non ha tutta questa importanza il fatto che le classi dell'anno scolastico 2019/2020 di ogni dove non completeranno i "programmi". 
È più importante che tutti gli studenti di ogni dove ce la facciano a superare da un punto di vista personale ed emotivo questa emergenza.
Forse sono scontata, ma non credo che TUTTI sapessero prima di oggi cosa fosse in concreto una pandemia, tranne per per il suo significato etimologico che tutti (me compresa) scriviamo e ripetiamo in ogni dove. Ora lo sappiamo. E lo dobbiamo metabolizzare. Soprattutto dovranno farlo i ragazzi, che hanno una lunga vita davanti, che dovrebbe essere il più possibile rosea e serena. 
Concluderanno l'anno non sapendo cinque o addirittura unità didattiche del programma di italiano, latino, greco, geostoria? Pazienza. Hanno una vita per recuperarli, se vorranno. Però, magari, grazie a noi professori (se saremo stati accanto a loro nel modo giusto) sapranno lentamente tornare alla normalità nel modo più giusto e sano.
È ovvio che manderemo loro un po' di materiale per il ripasso di ciò che abbiamo fatto mentre andavamo a scuola in modo tradizionale. È ovvio che proveremo ad inventarci dei modi per far fare loro uno o due test a distanza, pur sapendo che potrebbero aiutarsi o copiare. Ma è altrettanto ovvio che se non ci riusciremo sarà lo stesso. È altrettanto ovvio che dovremo dire loro di non preoccuparsi, se non riescono a connettersi, se non possono scaricare o stampare i materiali, se non possono sostenere un test a distanza. Ci penseremo quando torneremo nelle aule. Se non ci torneremo ci inventeremo qualcosa. Ma dopo. Poi. Quando sarà il momento. 
In questo momento è più importante sentirli (sempre in modo ufficiale e filtrato dalla scuola, non in modo personale ed invasivo, perché sono degli adolescenti, e non a tutte le ore, perché hanno il diritto alla disconnessione come tutti noi), far sapere loro che dal punto di vista relazionale le cose non sono cambiate: loro sono sempre studenti, hanno gli stessi prof che anno salutato in aula il 4 marzo, appartengono alla stessa istituzione scolastica del mese scorso. Come prima. Più di prima. Se sono bambini o adolescenti hanno bisogno di certezze, di punti fermi. Lo sappiamo, perché siamo educatori. Ad un certo punto della loro adolescenza fanno i rivoluzionari e dicono di voler distruggere tutto, ma necessitano di presenze sicure. 
È più importante -semmai- badare semplicemente a che non si facciamo fagocitare dal dolce far niente, che non si "chiudano" nel loro telefono in modo passivo, che non si sentano solo in prigione, come ci sentiamo tutti noi in questo momento difficile. 

Meditiamo, gente, meditiamo. 

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